Gira e rigira, dagli oggi e dagli domani, sopraggiunse infine il giorno in cui la rana zen si dissociò dal suo insegnante di meditazione, ne rinnegò di punto in bianco i pur saggi consigli per dedicarsi … A un’altra disciplina? Che dire … Al Bhakti Yoga? Beh, non sarebbe stato male, lei era propensa soprattutto a donarsi, agli altri, a chiunque, a servirli, ad amarli, senza se e senza ma, incondizionata-mente. Non giudicava, non tergiversava. Eppure …
Eppure, nonostante si sentisse soddisfatta, pressoché realizzata, senza più ansie, c’era un problema di fondo. La rana camminava sopra una nuvola di amor proprio.
– “Che c’è di male ad amare anche se stessi?”, le chiese d’improvviso l’alter-ego mentre si specchiava in silenzio nel cielo limpido della sua consueta meditazione.
– “C’è che ci sono ancora «io»!”, rispose a se stessa la rana facendo le veci del maestro che aveva appena lasciato.
– “Ora hai capito a che servono i maestri?”, ribatté la rana-specchio (l’alter-ego).
– “Servono a dargli la colpa dei tuoi insuccessi”, replicò ancora l’anfibio che, come dianzi, si atteggiava di nuovo a maestro.
– “Beh, ci siamo quasi”, concluse il testimone super partes, il cielo-mente che nel frattempo si era offuscato per il via vai d’ipotesi. “Il maestro serve a rammentarti che ci siamo quasi.”
E voi, lettori di storie semi-zen, avete capito l’antifona? La meta esiste solo nella misura in cui ci credi o è un obiettivo reale? Sta di fatto che per realizzarti dovresti perderti nella meta. Ma allora, chi è che sarebbe in grado di riconoscerlo? E se tutto il gioco non consistesse in null’altro che convincere o indurre il pensiero a fermarsi? Ne avete abbastanza? Un sorriso.
Commento: forse i nessi logici tra le varie battute del dialogo non sono proprio immediati, ma lo scopo di questi “racconti per meditare” è sempre lo stesso: indurre la mente a mollare la presa, ad arrendersi (a se stessi), a … rilassarsi. Grazie.