«Se vuoi che la pratica della meditazione metta radici e fiorisca devi sapere perché pratichi. Altrimenti come riuscirai a sostenere il non fare, in un mondo in cui solo il fare sembra avere valore? Che cosa ti indurrà ad alzarti presto la mattina per stare seduto a osservare il tuo respiro, mentre tutti gli altri se ne stanno al calduccio a letto? Che cosa ti indurrà a dedicare un certo tempo a “essere soltanto”, mentre gli ingranaggi del mondo girano e i tuoi impegni e le tue responsabilità ti chiamano? Che cosa ti stimolerà a portare la consapevolezza in ogni attività della tua vita quotidiana, momento per momento? Che cosa impedirà che la tua pratica perda energia, diventando monotona o esaurendosi completamente poco a poco, dopo un iniziale scoppio di entusiasmo? ( Jon Kabat-Zinn)»
Le motivazioni che puoi leggere nei numerosi articoli, soprattutto scientifici, rintracciabili on line, ma pure in varie riviste cartacee, ricalcano, oramai, così tanto lo stereotipo più classico della meditazione al punto da chiedersi se non si sia creato una sorta di pappagallismo – tendenza a imitare in modo meccanico atti, gesti o parole altrui – pressoché compulsivo. Quindi non sto a ripetere come un idiota concetti di cui – per altro io stesso – temo di avere abusato. Al massimo potrei tentare di spiegare le mie motivazioni personali. Confesso subito di non essere quello stinco di santo genuflesso o anchilosato che l’immaginario collettivo attribuisce in genere a coloro che prediligono questo genere d’«approccio esistenziale». Cosa credevate, che dicessi «pratica spirituale»? Sarà che ci sono talmente dentro da non riuscire più a distinguere tra spirito e materia. Avverto solo la levità delle intenzioni, la lungimiranza della consapevolezza, il rifugio nella ricerca di una meta che però non può dirsi nemmeno saggezza. Quali sono, dunque, le mie motivazioni? Beh, ve le ho appena dette …
Ottime osservazioni che ti inducono a riflettere ed a chiederti “Perche’ lo fai?”.