Quelli, sono venuti come meteore – o come stelle? –, e come tali se ne sono andati. Ma, se ne sono davvero andati? Riportiamo qualche breve considerazione su alcuni grandi Maestri di meditazione del passato.
Il primo è il Buddha storico, Gautama Siddharta, il quale non ritenne mai di essere un sant’uomo. Sollecitò chiunque a ragionare autonomamente senza credere passivamente e, in ogni caso, rispettando tutti gli esseri senzienti. Il Buddha storico ricordava ripetutamente alla gente che l’esperienza della verità è originata dalla loro stessa mente. In realtà, per oltre trecento anni dalla sua morte non fu nemmeno raffigurato.
Il secondo è Gesù. Vi sarebbe così tanto da dire. I suoi insegnamenti, contenuti solo in parte nei Vangeli, coincidono molto più di quanto si possa immaginare con quelli della Bhagavad Gita indù, cui si può far riferimento per comprendere il messaggio spirituale del terzo Maestro, Krishna.
Il quarto è Babaji Maharaj, il mitico Yogi dell’Himalaya. Non se ne conosce la data di nascita che dovrebbe risalire a molti secoli addietro. Secondo i suoi discepoli è tuttora vivente. Egli trasmise la conoscenza del Kriya Yoga, una serie di tecniche che secondo la tradizione hanno successo solo se impartite direttamente da un precettore qualificato.
Il quinto è Babaji di Hairakan, si tratterebbe sempre di Babaji Maharaj nell’ultima forma con cui apparve, nel giugno del 1970, in una grotta sacra ai piedi del Monte Kailash. Egli riteneva che la meditazione sia difficile senza aver ricevuto l’iniziazione da un Guru e che per avere successo dovrebbe essere integrata da una pratica attiva come il Karma Yoga e la devozione.
Seguono figure emblematiche i cui insegnamenti – più o meno condivisibili – hanno lasciato tracce profonde nella “cultura religiosa” della nostra epoca. Rammentiamo, tra i tanti altri il cui studio ci sembra particolarmente utile, Paramahansa Yogananda (1893-1952), Sri Yukteswar (1855-1936), Lahiri Mahasaya (1828-1895), Sri Aurobindo (1872-1950), Ramana Maharshi (1879-1950), George Ivanovich Gurdjieff (1869-1949), Meher Baba (1894-1969), Jiddu Krishnamurti (1895-1986), Osho (Rajneesh) (1931-1990), Tenzin Ghiatso (Dalai Lama) (1935), Sathya Sai Baba (1926-2011), Ramakrishna (1836-1886), Swami Vivekananda (1863-1902), Amma, …
Che cosa dissero? Quale fu il loro messaggio? E’ così complesso da non poter essere sintetizzato in poche frasi, … , tuttavia potremmo individuare ciò che le diverse scuole di pensiero hanno in comune …
Ben al di là del linguaggio usato per esprimere e comunicare le loro personali esperienze spirituali ritroviamo, in ciascuno di essi, le medesime aspirazioni, gli identici obbiettivi …
Conoscere sè stessi. Trovare un modo per capire cosa sia quel vago sentore d’incompletezza o d’inadeguatezza che talvolta ci segue come un’ombra fedele. Ritrovare fiducia in noi stessi, energia e gioia di vivere. Senza, per tutto ciò, esser costretti a compiere imprese mirabolanti. Ma nemmeno minimamente pensare di poter “acquistare” al mercatino delle pulci spirituali formule o preghiere miracolose.
Conoscere se stessi in modo da ri-conoscere le proprie “illusioni personali” e annientarle mediante la consapevolezza della nostra natura essenziale.
Ma, quali sono i motivi – e qui le dolenti note – per cui sembra così difficile raggiungere una condizione di beneficio permanente tale da poter esser considerata, anche approssimativamente, uno stato meditativo?
Le ragioni principali di quella specie di paura, in qualche modo ritrosia, nel volersi impegnare sinceramente almeno per pochi minuti di meditazione quotidiana, sono l’attaccamento e l’identificazione.
Non più parlarne, quindi. Perché declamare o interloquire altro non sono che modi per procrastinare quel minimo d’impegno necessario per cogliere a volo questa splendida opportunità. Bensì applicarsi diligentemente nell’esecuzione di un esercizio che solo all’inizio potrà sembrare insignificante.
Che cosa sono l’attaccamento e l’identificazione? Non risponderemo direttamente. Ricorreremo, invece, al soccorso di un antico rimedio.
In questa piccola pagina multimediale non possiamo far di meglio che dedicare, umilmente, in memoria di questi Maestri, la trascrizione di alcuni versi della Bhagavad Gita, uno dei libri sacri degli Indù.
In questo splendido poema epico si parla, sotto forma di metafora, di un’antica e cruenta battaglia combattuta da due eserciti i cui componenti appartenevano alle medesime stirpi. Lo scopo di quella lotta, in realtà, oltre che la volontà di superare ogni idiosincrasia personale, le false soddisfazioni di una vita dedita esclusivamente all’edonismo, cioè alla ricerca del piacere immediato come sola ed unica virtù, rappresenta, simbolicamente, la necessità improcrastinabile di “vincere” attaccamenti ed identificazioni psicologiche.
(I, 21) Impugnando il suo arco, Arjuna disse al dio Krishna: “Signore della Terra! Ti prego, ferma il mio carro tra i due eserciti, o Uno e Immutabile,
(I,22) “Che io possa osservare chi è qui, pronto e avido di battaglia, con cui debbo scontrarmi ora che la guerra sta per scoppiare;
(I, 24) Così sollecitato da Arjuna, il dio Krishna fermò il carro lucente tra i due eserciti.
(I, 26) Arjuna vide là ritti padri e nonni, maestri, zii, fratelli, figli e nipoti e amici suoi;
(I, 28) il cuore di Arjuna di pietà si strusse e mestamente egli disse: “Krishna, Signore! Quando vedo i miei stessi parenti, pronti e disposti alla lotta,
(I,30) “le mie gambe sono fiacche e la gola è secca; il corpo trema e i capelli sono ritti sul capo;
(I, 32) “Signore! Io non desidero vincere nè regnare; nè ardentemente bramo il piacere. Che cosa è per noi, Krishna, un regno o il godimento o la vita stessa?”
(I, 47) Dopo essersi espresso così, sul campo di battaglia, Arjuna, gettando via arco e frecce, ricadde sul sedile del carro, sopraffatto dal dolore.
(II, 1) A lui così sopraffatto dalla pietà, con gli occhi rigati di pianto e talmente depresso e avvilito, il dio Krishna si rivolse con queste parole:
(II, 2) “Arjuna! Perchè in questo momento così critico questo scoraggiamento, indegno di un Ariano, foriero solo di disgrazia e tale da chiudere le porte del cielo?”
(II, 3) Non cedere alla debolezza, Arjuna! Non ti si addice. Liberati da questo spregevole senso di viltà e alzati, o conquistatore di nemici”.
(II, 4) Arjuna rispose: “Signore! Come posso attaccare Bhisma e Drona saettandoli in battaglia – loro che sono degni di rispetto e di onore, o Distruttore del nemico?”
(II,9) Rivoltosi così al dio Krishna, il conquistatore di nemici disse. “Non combatterò”, e restò in silenzio.
(II, 10) E poi, in mezzo ai due eserciti, il dio Krishna, con sorriso comprensivo, gli parlò mentre era così depresso.
(II,11) Ti affliggi e peni per chi non merita questa tua pena e poi parli di saggezza. Il saggio non si affligge per i morti nè per i vivi”.
(II,12) “Non c’è mai stato un tempo in cui Io non esistevo nè tu, nè quei principi, e non ci sarà mai un tempo in cui cesseremo di essere”.
(II, 16) “Quello che non è, non sarà mai; quello che è, non cesserà mai di essere. Per il veggente, queste verità sono evidenti”.
(II, 17) “Quello che compenetra tutto, questi è immutabile. Nulla può distruggere Quello”.
(II, 22) “Esattamente come un uomo spoglia gli abiti logori e ne indossa di nuovi, così Quello getta via i corpi ormai logori e entra in altri corpi, i nuovi corpi”.
(II, 23) “Le armi non Lo feriscono, il fuoco non Lo brucia; l’acqua non riesce a bagnarLo e il vento non sa asciugarLo”.
(II, 30) “Colui-che-abita nel corpo di tutti, Principe, non è mai vulnerabile. E quindi non dovresti tormentarti per le creature”.
(II, 37) “Se cadrai in battaglia, conquisterai il cielo; se vincitore godrai la terra. Quindi, Principe, alzati e combatti”.
Come superare l’attaccamento e l’identificazione in modo da riuscire a meditare senza il timore inconscio di perdere se stessi? E’ molto difficile che accada a seguito dei soli buoni propositi. Un sistema efficace è quello di cominciare a meditare comunque. La paura del “nuovo” e inconsueto modo di percepire il mondo, le nostre relazioni e noi stessi, svanirà come neve al sole perché di per se stessa è assolutamente inconsistente.
Gli ostacoli alla meditazione, tuttavia, sono di natura eterogenea. L’esecuzione del metodo basilare di cui parliamo spesso, cioè l’attenzione al flusso del respiro, necessita, pur sempre, di una modesta curiosità intellettuale. Tale, comunque, da consentire l’esplorazione di ambiti conosciuti solo in virtù delle descrizioni di coloro che si sono già avventurati “nella selva oscura” della propria interiorità.