Cristianesimo, induismo, buddismo, … , tutte le religioni si fondano sulla medesima matrice, hanno gli stessi fini, uguali intenti. Ciò che le divide davvero sono solo miti, leggende, ignoranza, inconsapevolezza. Le differenze di linguaggio con cui si esprimono le varie dottrine dipesero, in origine, dai contesti storici, dalle culture e dalla contingenza. Al contrario, l’afflato spirituale è sempre stato, dovunque e comunque, il medesimo.
Nirvana
Con una terminologia cristiana si potrebbe descrivere il nirvana come una rinascita – il risveglio – che consente di percepire “il regno dei cieli” qui e ora, dentro di noi, fuori di noi, su questa terra. Forse in modo poco ortodosso, ma verosimile, il nirvana può essere ritenuto come: l’estinzione – dell’illusione – di essere un sé, cioè un intramontabile ego; ovvero di possedere una natura permanente e irriducibile. Nirvana è altresì consapevolezza della perfezione di ciò che è.
Sono enunciazioni molto sintetiche, mi pare evidente. Per tentare, dunque, di comprenderle meglio sarà bene puntualizzare prima un tema piuttosto ricorrente nella definizione di nirvana che, se interpretato letteralmente, potrebbe dare adito a sterili fraintendimenti e suscitare qualche perplessità: l’estinzione del sé.
Cos’è, dunque, il nirvana? Estinzione del sé, ovvero dell’ego inteso come individualità isolata, indipendente, a prima vista separata dal contesto in cui vive e di cui ne dispone come meglio crede? Al contrario, nirvana è conseguimento della consapevolezza di essere interdipendenti, al di là di ogni nome o forma, al di qua di un indicibile certezza, simili, uniti oltre qualunque barriera economica, separazione culturale o lontananza geografica. Uniti nella gioia di condividere il proprio amore, le proprie risorse, uniti dalla compassione.
Nirvana è estinzione dell’ego così come l’abbiamo conosciuto da sempre. Nirvana è la fine di ogni dualismo astratto, mentale, psicologico, spirituale. Con enfasi quasi poetica potremmo dire che nirvana è la cessazione del divenire, dell’apparire, del comporsi e ricomporsi, dello sparire, di tutto ciò che non sia strettamente connesso con la realtà. Nirvana è l’eternità del nulla cosmico che rivela la sua natura incoercibile, indefinibile, inconcepibile. Nirvana è come un’ammissione, un’accoglimento amorevole, una certezza, il conseguimento della verità. Quella di una risata tacita, silente, così rara e inconsueta come sanno esserlo solo le foglie verdi in autunno.
Nirvana è l’apice secondo la valle, una valle secondo la più slanciata delle vette. La sensazione d’individualità e isolamento che declina a favore di un sentimento di un’universalità.
“Né nascita, né annullamento, ecco quel che chiamo nirvana. Nirvana significa la percezione della realtà così come è veramente in sé e per sé.” (Lankavatara Sutra).
Il nirvana buddista è innanzitutto un aldiquà, il risveglio da un brutto sogno. E’ vedere rettamente. Il nirvana consiste nella cessazione di tutte le ingannevoli costruzioni della nostra immaginazione, allorquando il flusso dei pensieri che indichiamo con mente non dipende più dalla mera forza dell’abitudine.
Sintesi
Ribadisco brevemente alcuni concetti formulati in qualche articolo precedente.
Molti buddisti non credono in Dio perché credere supinamente, cioè passivamente, remissivamente, implica non conoscere. Credenza senza vera conoscenza è sinonimo d’ipocrisia, ignoranza e finzione.
Il problema non è se Dio sia più o meno reale; se debba essere inteso come origine trascendente o come verità immanente; se implichi una rivelazione personale o una manifestazione impersonale. Tali disquisizioni sono meri esercizi intellettuali.
Solo la ricerca individuale colmerà il vuoto causato dal dubbio. La ritualità celebrativa e commemorativa potrà lenire, confortare, ma si tratterà, pur sempre, di un fattore temporaneo, un mezzo, non il fine. Non bisogna confondere i mezzi con i fini. La natura essenziale di ciascuno di noi non è disgiunta da alcunché, è implicita alla vita medesima. D’altra parte, tutta la vita è già, di per sé, divina.
Gli insegnamenti del buddismo non possono essere separati dalla pratica della meditazione. Oppure, come avviene in certi casi, dalla ripetizione di un mantra. E’ tale pratica che sostiene la teoria e non, come nelle altre religioni su base dogmatica, il contrario.
La meditazione non serve a liberarsi. Da che cosa, poi? La meditazione è utile, ma non indispensabile, per far luce sul proprio ego, sulla sua inconsistenza, insussistenza.
Meditazione
Riporto, infine, la sintesi di un pensiero del mio insegnante di meditazione.
Non so quanto ci sia di equo, appropriato e ragionevole o d’imperfetto in tutto ciò che mi circonda, nel pensiero umano come nella società. Ma sono certo che divenendo auto-consapevole riuscirò a regolarmi sempre meglio, sia per quanto riguarda le scelte attinenti la mia vita privata che nei confronti del mondo esterno. Questo perché, in realtà, tra la mia interiorità e il mondo esterno non v’è proprio la benché minima differenza.
Epilogo
Le religioni indicano la via per conoscere o esperire la “verità”: Ma la verità non è un’idea. Che ci si senta hindu, cristiani, buddisti o musulmani cambia ben poco. Riuscirà mai questa “verità” che talvolta pare celarsi persino in un semplice fiore, ma che, ahimè, tal’altra sembra decisamente ingannare finanche le mani vuote di un innocente affamato, riuscirà mai a lenire questa ineludibile sete di certezze?